CAPITOLO VI - IMPLICAZIONI GIURIDICHE E PROSPETTIVE DEL FENOMENO COPYLEFT: 6.2. LA GIUSTIFICAZIONE GIURIDICO-ECONOMICA DELL’ATTUALE SISTEMA DI DIRITTO D’AUTORE

L’interrogativo da porsi è dunque se il diritto d’autore così come si è evoluto negli ultimi decenni, quindi sempre più in rispondenza a scelte di politica economica, stia veramente rispettando gli equilibri fra i vari interessi in gioco oppure se stia solamente irrigidendo il mercato della creatività e della conoscenza. In quest’ultimo senso si esprime ovviamente un personaggio come Stallman che, nel suo saggio “L’interpretazione sbagliata sul copyright: una serie di errori”, fondando le sue teoria su principi di matrice costituzionale e giurisprudenziale, sostiene: “[…] il copyright esiste a beneficio degli utenti, non nell’interesse degli editori o degli autori.”; successivamente riporta il dettato dell’art. 8 sez. 1 della Costituzione U.S.A secondo cui “il Congresso avrà il potere di promuovere il progresso della scienza e delle arti utili, garantendo per periodi di tempo limitati ad autori e inventori il diritto esclusivo ai rispettivi testi scritti e invenzioni.”

Da ciò l’hacker prende le mosse per sottolineare che nel corso degli ultimi decenni gli intenti del costituente americano abbiano subito una sempre maggior distorsione in ossequio alle esigenze imprenditoriali del mondo dell’editoria prima e della comunicazione multimediale poi. Inoltre prospetta tre errori basilari nell’individuazione del fondamento giuridico del copyright. Il primo errore sarebbe la ricerca di un equilibrio fra gli interessi: Stallman è contrario a tale impostazione, che abbiamo visto essere per certi versi la prima ratio del sistema di copyright: risulterebbe infatti palese - a suo dire - che l’intenzione del costituente fosse solo ed esclusivamente la promozione del progresso a favore della collettività degli utenti, senza alcun compromesso di tipo economico. Il secondo errore riguarderebbe il privilegio attribuito dal diritto americano al solo aspetto patrimoniale e commerciale della creatività; il terzo sarebbe quello di voler ottenere un incentivo della creatività massimizzando il potere degli editori. E’ evidente che questa posizione radicale dipende in gran parte dal ruolo pseudo-politico di una figura rappresentativa come Stallman portavoce a livello mondiale delle esigenze della comunità hacker. Però l’affermarsi del copyleft come fenomeno culturale di massa ci invita (o forse ci obbliga) ad una seria considerazione di tali critiche al modello tradizionale di diritto d’autore e precisamente a quello di origine common law. Si deve anche tenere presente che posizioni come quella di Stallman non sono in assoluto le più radicali, se ci riferiamo a tutto il movimento cyberpunk o no-copyright ‘votato’ alla totale liberalizzazione del file-sharing e in certi casi anche della pirateria vera e propria. Invece, basta rifarsi a quanto detto sull’origine storica del concetto di copyleft in fatto di software, Stallman (e tutto il movimento culturale da lui ispirato) non si esprime a favore di una totale eliminazione del copyright , il quale,se usato correttamente e non abusato, è realmente il miglior incentivo per l’arte e la cultura; con buona pace di tutti coloro che nella rivoluzione Opensource ha voluto vedere la “morte del copyright”.

Alcuni autori di dottrina giuridica hanno riflettuto approfonditamente sull’ipotesi di un mondo senza diritto d’autore e di eventuali alternative per la tutela e la promozione della creatività, proprio alla luce delle nuove esigenze e quindi dei diversi interessi (pubblici e privati) del mondo attuale. Capostipite di questa scuola di pensiero, di matrice giuridica ma con ampie contaminazioni di sociologia, è Lawrence Lessig (www.lessig.org), lo stesso giurista statunitense incontrato fra i fondatori di Creative Commons e che attualmente siede anche fra i membri della Electronic Frontier Foundation; nel suo libro “Il futuro delle idee” del 2001 prospetta i rischi che corre la collettività degli utenti in mondo interconnesso, il quale se da un lato può rappresentare uno sterminato spettro di possibilità di espressione e comunicazione, dall’altro può risolversi in un più invasivo controllo della creatività, se permangono le distorsioni e le rigidità dell’impostazione attuale. Un altro studio molto interessante e perspicace (e più strettamente di dottrina giuridica) sulla ridefinizione dell’interesse pubblico come giustificazione del copyright è quello compiuto dal britannico Gillian Davies nel libro appunto intitolato “Copyright and the public interest” edito nel 2002. Dopo aver passato in rassegna, in un’ottica sia storica che comparatistica, il nesso fra tutela d’autore e interesse pubblico nei principali ordinamenti occidentali (Gran Bretagna, Stati Uniti, Francia, Germania), entra nel merito delle rinnovate esigenze per la collettività derivanti dal nuovo contesto delle comunicazioni.

Per prima cosa Davies sottolinea che l’interesse personale dell’autore non è sufficiente di per sé per attribuirgli dei diritti esclusivi; e successivamente fa notare che gran parte dei creativi non producono opere principalmente per la prospettiva della retribuzione economica quanto piuttosto per uno spirito innato di creatività, mirando più che altro ad un riconoscimento morale della loro reputazione d’autori . E’ necessario dunque affinché si applichi una tutela esclusiva sulle opere dell’ingegno che essa concorra all’affermazione di un più ampio e generale interesse allo stimolo della produzione artistico-culturale e un rafforzamento della sfera economica ed imprenditoriale a ciò connessa.

I dubbi fin qui prospettati sulla legittimità di un’applicazione troppo pervasiva del copyright si condensano in un dilemma: nel panorama attuale, gli autori realizzano opere perché il copyright esiste oppure il copyrighy esiste perché gli autori realizzano opere?

Davies cerca di rispondere a tale inevitabile quesito ipotizzando il funzionamento dell’editoria e della comunicazione in un mondo privo di copyright e avanzando alcune ipotesi per l’applicazione di tutele alternative alle opere creative. L’alternativa più percorribile sarebbe quella di una sorta di ‘dominio pubblico pagante’ nel quale sia lo Stato a retribuire lo sforzo creativo dell’autore mentre all’imprenditoria editoriale competerebbe la realizzazione concreta delle iniziative editoriali. In questo modo, sarebbe possibile incoraggiare la creatività non tanto prospettando la possibilità per l’autore di un futuro e solo eventuale sfruttamento dell’opera; bensì sostenendo concretamente l’autore durante il lavoro di ricerca o di realizzazione, attribuendo un ruolo fondamentale alle associazioni no-profit e agli istituti di ricerca . Inoltre l’abolizione del copyright comporterebbe da un lato l’eliminazione dei costi per amministrare i diritti d’autore e per ottenere le relative licenze d’uso dell’opera; dall’altro si agevolerebbe così una contrattazione diretta fra autori ed utenti, proprio come nel modello di copyleft.

L’autore, tuttavia, nella sua dissertazione ipotetica sviluppa successivamente alcune argomentazioni di carattere economico e pratico che fanno intuire quanto sarebbe rischioso un annullamento totale delle prerogative esclusive dell’autore: innanzitutto i rischi (già accennati) sulla difficoltà di gestire in modo efficace e certo i diritti in un modello di libera contrattazione autore-utente nel caso di grandi iniziative editoriali con un target indefinito; poi il rischio che il valore di un’opera venga ridotto al puro costo della sua realizzazione materiale, il che porterebbe ad un appiattimento delle variegate istanze creative e ad un loro mancato (o comunque insufficiente) incentivo. D’altronde, come fa notare Ubertazzi, “comprimere il diritto d’autore significherebbe far ingiustamente gravare su una particolare categoria di cittadini, e precisamente sui creativi/autori, i costi della crescita dell’industria culturale di altri.” Quindi dobbiamo esprimerci più opportunamente e realisticamente per una soluzione compromissoria: una situazione in cui possa essere rimarcata e ampliata la sfera d’influenza del fair use , in cui siano chiariti e abbreviati i limiti di tempo per lo sfruttamento esclusivo dell’opera e soprattutto in cui sia l’autore il vero gestore dei propri interessi.




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